De rerum panbauletto

17 dicembre 2021

Esistono due scuole di pensiero sulla spinosa questione del pan bauletto: c’è chi pensa che tutte le fette della confezione siano uguali e chi sostiene che alcune – quelle che da un lato sono tutta crosta, generalmente la prima e l’ultima – siano meno uguali delle altre.
Ed è impossibile mettere d’accordo le due fazioni: quelli per l’uguaglianza della fetta non accetteranno mai discriminazioni, mentre gli altri, a loro volta, mai sopporterebbero l’appiattimento della loro scala di valori.
Il dibattito prosegue da anni, senza vinti o vincitori, ragioni o torti, giusti o sbagliati; il numero disegnato a terra è tanto un sei per gli uni quanto un nove per gli altri che lo osservano, e – incredibile ma vero – con piena ragion d’essere in entrambi i casi.

Ad un certo punto della mia esistenza avevo deciso di pendere, leggermente, dalla parte dei sostenitori della superiorità della fetta pura. Quella tutta mollica.
Non discriminavo del tutto le fette con la crosta su un lato, assolutamente no, mi limitavo semplicemente a riconoscere che queste mi procuravano una soddisfazione inferiore rispetto alle colleghe, sia nelle operazioni di pulizia finale del piatto che in quelle di imbottitura o spalmatura di altre cibarie; dunque le relegavo al ruolo di custodi finché non erano le sole rimaste, e a quel punto le consumavo senza risentimenti.
È infatti abitudine diffusa tra i sostenitori della diversità della fetta quella di non considerare la prima e ultima – le diverse – fino a che tutte le altre non siano finite. Il tutto, pare, per mantenerne più a lungo la freschezza.
Leggenda narra che anche alcuni dei più ferventi sostenitori della fetta unica si concedano altrettanto lusso, tuttavia non abbiamo modo o pretesa di dimostrarlo e lasceremo al lettore il beneficio del dubbio.

Quel giorno, cuoco oramai consolidato da anni di indipendenza, avevo deciso di cucinarmi una pasta allo scoglio di quelle già pronte e surgelate.
Di sapore e consistenza più simile al peschereccio che al pescato, quel piatto regalava comunque la soddisfazione finale di una sugosa scarpetta, di cinque o sei mandate almeno.
Giunto al momento tanto atteso, mi ero alzato a prendere il consueto pan bauletto, compagno ideale di un piatto tanto prelibato.
Sapevo, credevo, di averne in casa due confezioni, una aperta e una ancora sigillata, ma avvicinandomi alla dispensa mi toccò constatare, come già altre volte, che la realtà delle cose era ben diversa dalle mie convinzioni.

Da qualche tempo mio fratello – evidente estremista, come tra non molto scopriremo – usava la casa nella quale abitavo come pied-à-terre un paio di sere alla settimana.
Insegnava in una scuola della città; certi giorni aveva la prima ora e partire da casa sua avrebbe significato levataccia, dunque ogni giovedì e domenica l’annuncio arrivava inesorabile:

“Stasera dormo lì. Lascia aperto.”

Non sapevo con precisione cosa combinasse una volta “lì”, avevamo ritmi differenti: arrivava e se ne andava mentre io ero ancora a letto o nei suoi dintorni; le uniche tracce del suo passaggio erano in cucina.
Fu così che appresi che apprezzava particolarmente il pan bauletto.

Delle due confezioni ne rimaneva una soltanto, in condizioni tali da farmi riflettere profondamente sulla natura umana.
Un ospite scortese, pensai, avrebbe potuto consumare alcune fette della prima confezione senza dare il minimo avviso.
Un ospite ancora più scortese, proseguii col mio ragionamento, avrebbe potuto terminare la prima confezione, magari abbandonando sul posto l’incarto che l’avvolgeva, in segno di gratitudine.
Quello stesso, se ancora più scortese, avrebbe potuto decidere di aprire anche la seconda confezione e, in un picco di estrema scortesia, continuare la sua opera fino all’estinzione totale di ogni forma di fetta presente nella dispensa.
Ma mio fratello no, mio fratello non era quella persona: mio fratello era sì scortese, ma era anche – e soprattutto – un’estremista della diversità della fetta.
A farmi giungere a quella radicale conclusione fu la visione della seconda confezione accartocciata su sé stessa e dal contenuto indefinibile, rivelatosi poi essere composto da:

  • prima e ultima fetta della seconda confezione appena rinvenuta;
  • prima e ultima fetta della prima confezione, che i più credevano estinta già da tempo;
  • incarto della prima confezione, inserito probabilmente per mantenere maggiormente al sicuro le quattro inquiline.

Il turbamento per l’accaduto e l’emozione per la scoperta furono tali da farmi dimenticare il sugo della pasta, oramai irrimediabilmente solidificato come tutti i prodotti di qualità: cosa significava davvero quel gesto? Era solo un incredibile talento naturale per la scortesia o c’era davvero il messaggio forte che avevo intuito? Voleva che diventassi uno di loro? Mi stava dicendo che la mia posizione era troppo moderata in un mondo di schieramenti netti? Era un sei? Era un nove? Quale numero avrei dovuto gridare?

L’indomani ero andato a fare la spesa (avevo finito il pane) e avevo comprato una di quelle confezioni tutta fette senza crosta.
Mio fratello deve aver apprezzato molto perché nel giro di qualche giorno non ho più trovato nemmeno l’incarto, e io ho pensato che forse ero stato troppo precipitoso nelle mie conclusioni, che in fondo non era davvero così estremista, che il problema non esisteva quando il problema non esisteva.
Tutti possiamo essere per l’uguaglianza quando tutti sono uguali a noi.

L’argomento con lui non l’ho mai tirato fuori: mai avrei voluto creargli del disagio o, peggio, indurlo a diventare un ospite più ragionevole.
Nel dubbio, però, la pasta allo scoglio ho smesso di comprarla.