Io la poesia non l’ho mai capita. Mai, lo ammetto.
Però una volta l’ho incontrata.
L’ho incontrata, si chiamava Diegaccio e guidava una Renault blu senza portiere.
La guidava tra i campi di grano e vacche, su discese scoscese, spianate spianate e salite fiorite. Anche d’inverno.
L’ho incontrato e mi ha parlato con le parole giuste, perché quelle sole lui sapeva e quelle sole lui sapeva usare.
E mi ha parlato dei campi di grano e vacche, del grano e del latte, dell’inverno e della sua figlia che usava le parole giuste.
“Ma le portiere che fine hanno fatto?” ho chiesto io a Diegaccio, mentre misurava con lo sguardo la profondità delle mie parole.
“Ah no, le portiere qui non servono, perché quando arriva la notte, io non voglio lasciarla fuori” mi aveva risposto.
E io non capivo Diegaccio perché non capivo la poesia.
E arrivò la notte ed entrò nella sua Renault senza portiere. Anche la notte.
E io non capivo ma entrai nella sua Renault senza portiere, perché mai avrei voluto essere lasciato fuori.