-Pensa, esistono dei buchi nell’universo che potrebbero permettere di viaggiare nel tempo.
– I buchi neri, dici?
– Non proprio, anche se mi pare di aver capito che siano in qualche modo collegati. Sono più che altro dei tunnel. “Buchi di verme”, li chiamano. Lo spaziotempo si piega su sé stesso come un foglio e il verme fa un buchino che attraversa entrambi i lembi.
– Lo spaziotempo?
– L’universo pare sia fatto di quella roba lì. È una specie di foglio, appunto, però a quattro dimensioni.
– Non capisco.
– Nemmeno io, in realtà. Però non si sa se sia vero.
Dispose davanti a sé una ventina di pirottini di carta e una dozzina di formine di legno, contandoli per essere certo del numero.
Stava preparando delle torte Grigna, la sua specialità.
– Perché alcune sono di legno e altre di carta?
– Quelle di carta sono più piccole.
– E sono tutte Grigna?
– Queste piccole sono le Grignette.
– Quali? Quelle di carta o quelle di legno?
– Entrambe. Assaggia questo.
Mi porse quello che credo fosse il braccio di un gigantesco frullatore, completamente ricoperto da una poltiglia beige.
Un po’ titubante, ne rubai un mignolo.
– È buonissimo.
– Vero? L’impasto fresco è probabilmente persino meglio della torta finita.
– Ma ci sono nocciole?
– Nocciole e mandorle. E un po’ di altri ingredienti.
– Sono allergico alle nocciole, adesso.
– In che senso adesso?
– Le ho sempre mangiate senza alcun tipo di problema, invece l’altro giorno ne ho ingoiato una manciata e mi si sono chiusi naso e gola.
– E poi?
– Nulla, ero con Osvaldo e ha detto che ormai ero fuori pericolo.
– È uno che se ne intende?
– Per niente. Però sul momento è stato convincente.
Mugugnò qualcosa di incomprensibile. Stava rimontando il braccio sul macchinario che mescolava l’impasto dall’altra parte del prestino.
Il braccio riprese a girare, picchiando ad intervalli regolare sul bordo del pentolone metallico.
Clac.
Clac.
Clac.
Clac.
– Comunque per me non è vero.
– Ti dico di sì. Si era gonfiato tutto e non riuscivo a respirare.
– No, non quello, intendo la storia dei buchi dei vermi.
– Ah. In che senso?
– Se fosse vero, vorrebbe dire che potremmo viaggiare nel tempo e quindi qualcuno sarebbe venuto a spiegarci la teoria.
– Giusto, non ci avevo pensato. Quindi non lo potremo sapere finché non lo scopriremo, e a quel punto torneremo indietro a spiegarcelo.
– Stai dando ragione a me.
– Già. Mi prude un po’ la gola.
– Vuoi che chiami Osvaldo?
– Lascia perdere. Tra l’altro a quest’ora starà lavorando.
– Cos’è che faceva?
– Si occupa di bordi dell’anima.
– E di tutto il resto no?
– Il resto è una cosa troppo grande, dice. È uno che sa quando fermarsi.
– Non vai più a trovarlo?
– Dovrei, però ho paura che la mia auto non sopporti più le trasferte così lunghe.
– Se potessi piegare il foglio e fare un buchino, eh?
– Davvero. Partirei oggi stesso e arriverei settimana scorsa.
– Ma non saresti qui.
– E perché no? Pensavo di fermarmi al massimo un paio di giorni…
“0.450” recitava la bilancia che stava usando davanti a me poco prima che ci desse le spalle.
Afferrò una delle lunghe pale in legno appoggiate al muro e la infilò nel forno per raccogliere qualcosa.
Il forno col motore Lamborghini.
Un vassoio di ciabatte fresche.
Indossava una maglietta bianca, una tuta nera, scarpe da basket nere e un discreto quantitativo di farina.
Mi piaceva guardarlo lavorare, mi infilavo nel prestino ogni volta che potevo: l’odore era meraviglioso, era tutto finestre e quando ti affacciavi vedevi il fiume. E strani macchinari ricoprivano di rumore e farina me e il tempo che, incantati, ce ne stavamo ad osservarli.
Il tempo. Lo spaziotempo. I buchi dei vermi. Non lì.
Clac.
Clac.
Clac.
Clac.