La Poetessa

8 ottobre 2018

Fu proprio a quella cena di metà Luglio che rividi la Poetessa.
Indossava un vestito lungo e rosso, un adeguato rosso natalizio, molto fine. Parte alta molto pudica, a maniche corte e per nulla scollata, e lunga gonna che arrivava fin sotto alle caviglie, avvolte da uno stivaletto anfibio nero che chiudeva il quadro, sgraziandolo un poco.
Una colonna di bottoni di rosso più scuro si arrampicava dall’orlo alla cinta, e molti di questi erano slacciati. Forse per favorire la camminata o forse per accendere la fantasia di chi, come me, non poteva non notare quegli scorci improvvisi di gamba lunga e liscia.

Era una gran bella donna, la Poetessa, niente da dire. Faccia un po’ equina, capello lungo e nero, corpo elegante e femminile, movenze sapienti, trucco al punto giusto e sguardo sempre pronto a giocare.
L’avevo conosciuta qualche anno prima, stava con quel dritto del Guanto che per lei aveva lasciato la fidanzata dei tempi, salvo poi accorgersi che non era quella giusta e tornare sui suoi passi.
Il Guanto era uno come si deve e stava sempre con ragazze di buona famiglia. Si concedeva anche parecchie ragazze qualunque, è vero, ma l’amore vero lo provava solo da un certo conto in banca in su. In questo era molto coerente e per questo noi tutti lo rispettavamo.
Dopo il Guanto, e una serie di altri uomini disgustosi dei quali si lamentava con sintassi impeccabile sul suo diario, la Poetessa aveva ulteriormente elevato il suo livello intrattenendosi con Bernardo, per tutti il Gran Maestro.
Il Gran Maestro l’aveva conosciuta tramite la sua migliore amica, della quale era fidanzato fedele.
Tra i due era subito scattato qualcosa e non passò molto prima che il gentiluomo migrasse dalla prima alla seconda, salvo appunto scaricarla brutalmente poco tempo dopo ed avviarsi verso quella che sarebbe stata la più grande vincita alla lotteria della sua esistenza.

E la Poetessa parlava e parlava, e raccontava, rideva, narrava, cercava i modi e i tempi giusti per il suo pubblico, composto da me e da un paio di sue amiche che partecipavano divertite alle sue storie.
E anch’io ridevo, giocando col suo sguardo, ridevo alle sue parole tanto architettate quanto banali. Ridevo guardando le sue labbra, sottili e appuntite, pensavo poco a ciò che vi usciva e molto a ciò che vi sarebbe potuto entrare.
Ridevo e la immaginavo inginocchiata davanti a me, intenta finalmente a riempirsi la bocca di qualcosa di interessante per entrambi, e pensavo a quanto sarebbe stato bello e quanto sarebbe stato sbagliato.
Sarei diventato anch’io uno di quegli uomini spregevoli e spiacevoli del suo diario, sarei diventato un Guanto o, peggio del peggio, un Gran Maestro.
Sarei diventato l’ennesimo uomo a prenderla e scartarla per qualcosa di meglio, perché mai lei avrebbe potuto esserlo, ma nel frattempo le sue gambe si accavallavano scoprendo lembi di pelle che io sognavo di accarezzare. E ridevo.
Ridevo e la immaginavo sopra di me, senza quel vestito rosso o altro, mentre mi parlava di amore e di altri concetti, di “quelli come noi”.
Scrittori, poeti, amanti della parola, “non c’è niente di più intrigante di una bella conversazione”. Romantici, sognatori, uomini liberi, uomini veri.
Tutto quello che vuoi, Poetessa, stanotte sarò tutto quello che vuoi se tu farai tutti quello che voglio. Sarò il tuo nuovo Guanto, il tuo Gran Maestro, scrittore, poeta, tutto quello che pensi possa darti un senso in questa grande recita che hai messo in piedi.

Le sue amiche erano stanche, la serata era finita. La Poetessa salutò tutti e accarezzò il mio braccio con casuale premeditazione.
Colsi ma non accolsi, come in tutto il resto della serata.
Salutai e me ne andai a casa a rielaborare tutto questo in un modo che solo lei avrebbe potuto rendere ancor più piacevole.