Mare dentro

7 ottobre 2018

«Ricordo in maniera piuttosto netta il momento in cui smisi di credere nelle cose: ero nell’ufficio dell’azienda di informatica per cui lavoravo in quel periodo, una grossa stanza disordinata con cinque scrivanie oltre alla mia.
Grigie.
Davanti a me avevo, allineati e aziendali, il mio iPhone, il mio MacBook e il mio iPad.
Erano lì, sulla scrivania vuota e pulita, e li fissavo.
Nessun altro in azienda aveva a disposizione quegli strumenti, probabilmente in molti avrebbero voluto ma nessuno se li era meritati come me li ero meritati io.
Li avevo meritati almeno tanto quanto li avevo bramati. Li desideravo più per quello che rappresentavano che per quello che veramente erano.
E non mi riferisco tanto al loro aspetto curato, al fatto che fossero oggetto del desiderio comune o altri motivi simili; li desideravo per quello che rappresentavano per me: un punto di arrivo, riuscire ad avere come strumenti quotidiani quelli che consideravo i migliori strumenti possibili, per di più contro il parere di molti dei miei stessi capi.
Avevo davanti a me tutto, non c’era altro che potessi pretendere; mi toccò constatare però che la situazione non generava in me alcun tipo di appagamento e che, anzi, provavo una certa inspiegabile tristezza.
Perché, mi chiesi. Perché proprio ora che avevo ottenuto gli strumenti che volevo, vincendo ogni tentativo di ostacolo e ottenendo quello che per molti sarebbe stato impossibile? Non era ciò a cui ambivo?
Fu proprio quello il momento in cui smisi di credere nelle cose, e nulla poi fu più come prima.
Andai avanti a lavorare, certo, era inevitabile. Però fu un lento declino della fiducia nel mondo e nel modo in cui pensavo avrebbe dovuto essere, e un progressivo agitarsi dentro di un mare che fino a quel momento nemmeno sapevo di avere.
Quel mare oggi è in tempesta, non potevo più continuare ad ignorarlo, ed è per questo motivo che sono al punto in cui sono.
Per capire.»